Descrizione
C’è un mondo che vivo e un mondo che penso, con una sorta di schizofrenia del vocabolario. È difficilissimo trovare parole che mettano in comunicazione questi mondi, come se scorressero assolutamente paralleli. Il mondo pensato, che sembra difficile, buio, arcaico, in realtà è la base di quello che vivo: luminoso, felice, pieno di desideri. Se non ci fosse quel substrato, profondo come un buco nero da cui ogni tanto appaiono le stelle, forse anche la vita del mondo reale sarebbe meno bella, meno importante.
Il canto dell’elefante ha un suono sordo. È custode della conoscenza, di una memoria antica legata a un tempo detentore della storia, svela il suo ruolo: essere un monito per l’uomo incapace di vedere. Il suo canto risuona lento e inesorabile, e prende forma attraverso la parola. Quella parola capace di farsi seme, e di volare, priva di radici se non quelle dell’aria che la trasporterà altrove, per poi depositarsi solo dove la terra sarà fertile e potrà generare forme nuove.